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Felice San Valentino!💓😘 Ti regalo una one shot (storia breve)!😘

 Che tu sia innamorata della calda copertina che avvolgi intorno alle gambe quando stai col tuo Libro preferito, che tu straveda per il foglio bianco sul quale disegni Mondi o scrivi di Universi, che tu sia pazza del tuo gatto coccoloso, o del tuo tenero cagnone, che sia legatissima al piccolo cactus che guarda silenzioso lo scorrere dei giorni sopra il davanzale, che sia appassionata del tuo cappuccino nella tazzotta panciuta che ti ha regalato la nonna, che ti sia fiondata sul blog ciondolodambra per leggere la nuova one shot pubblicata per la festa degli innamorati, ecco, a tutte/i Voi auguro un felice San Valentino, che sia pieno di Colori, tranquillità e Amore per ciò che fate, per ciò che siete, e per le persone importanti che illuminano la vostra vita, quelle che avranno sempre un posto speciale nel cuore. 💓😘💓


At Last

 (One shot di 1690 parole, pubblicata per la prima volta nel febbraio 2019)


Brutto e antipatico, ecco l’impressione che conservava di lui chiunque avesse la dannata sventura di averci a che fare, e fu esattamente la stessa che assaporai io, dopo il primo giorno di lavoro. Difficilmente arrivavo a odiare le persone, ma per lui avevo fatto un’eccezione. Quando gli allungavo la posta, il nostro carodirigente, dopo avermi squadrato con una faccia schifata e perplessa, partoriva a stento un “grazie, Matilda”. Osservava tutti con la stessa espressione, non mi ci volle molto a notarlo. Era un tipo metodico, il nostro capo, di quelli con la puzza sotto il naso. Stava sempre chiuso nel suo ufficio come un paguro dentro la conchiglia e ne usciva solo per urlare contro i sottoposti, come se lui fosse l’unico in agenzia a saper lavorare. In realtà era bravo solo a sbraitare e a criticare l’operato altrui, quello che in realtà riempiva giorno dopo giorno le sue tasche e quelle dei titolari. Arturo Tempesta era il suo nome, ma per me era: il flagello. Era un rospo di quasi settant’anni con un naso adunco che svettava come un guerriero sopra una barba irsuta e brizzolata. La tempesta la portava nel cognome, e il nome era come filo spinato, pieno di erre e di ti: Arrrttturrro. Bah, pesonaccia dalla quale tenersi alla larga. E io ci stavo volentieri alla larga da lui. Io, donna solare un po’ appannata, ottimista per quanto potesse esserlo una che le aveva buscate per buona parte della vita e che aveva superato da qualche mese i sessanta. Lavoravo nell’agenzia finanziaria diretta dal flagello da ormai tre anni. Lui dirigente, io un’impiegatuccia qualsiasi che quando andava bene smistava la posta. Lui vedovo da quasi un anno, io vedova per scelta. Ebbene sì, per scelta. Lo avevo ammazzato io mio marito, avevo manomesso l’impianto frenante dell’auto dopo giorni e giorni di corsi intensivi su Youtube. Tutti avevano creduto alla disgrazia – persino il commissario ci aveva creduto – avevo recitato la parte della mogliettina affranta, a quanto pare bene. Forse anche il mio aspetto mi aveva aiutata: bassina, spalle piccole e fianchi tondi tondi. Anche gli occhiali che portavo erano tondi e il viso non stonava con tutto il resto. Finalmente era finita, dopo anni di botte avevo trovato la pace. Anche lui, mio marito, l’aveva trovata, ma fra le lamiere contorte dell’auto. I soccorsi avevano recuperato il suo cadavere senza mani: erano saltate via, tranciate nella caduta, disperse chissà dove fra i cespugli del dirupo. Quelle mani non avrebbero mai più fatto del male a nessuna.

Quella sera ero ansiosa che scoccasse l’ora X. Il mio programma per la vigilia di Natale era già stilato e approvato: sarei passata al fast food sotto casa, avrei preso il pollo e le patatine, una cola, avrei infilato il mio pigiamone caldo caldo, e giù sul divano a divorare film su Netflix, di quelli natalizi che rifulgono di buoni sentimenti e nei quali l’amore e la giustizia trionfano sempre – cosa che di rado capita nella vita. Tutto sommato non potevo lagnarmi, in un certo senso, la mia giustizia, a sessant’anni suonati, l’avevo avuta – ehm, me l’ero procurata – mi ero liberata del mio aguzzino, un lavoro che mi dava da vivere ce l’avevo, anche se non era il massimo cui aspirare, e avevo trovato una casa, piccolina, compatta, con qualche piantina e un gatto affettuosissimo e di buon appetito.

Il flagello quella sera, come ogni sera della vigilia, aveva chiamato i subalterni nel suo ufficio, uno a uno, per porgere gli auguri e per offrire a ciascuno il consueto vassoietto di biscotti allo zenzero: una quindicina di omini della fortuna – erano auguri formali, dovuti. Ogni anno, noi dipendenti, ci aspettavamo che quel donodiventasse più sostanzioso, dati i profitti in crescita, ma a ogni vigilia perfino i biscotti rimpicciolivano.

Quella sera Arturo mi aveva ricevuta per ultima nel suo ufficio, il nostro piano era ormai deserto, non vedevo l’ora di tornarmene a casa. Abbottonai il cappotto, afferrai la borsa, avvolsi la sciarpa intorno al collo e raggiunsi l’ascensore a passo svelto. Guardai il pulsante di chiamata rosso come un semaforo e sbuffai: di certo avrei dovuto aspettare, il numeretto luminoso indicava il ventunesimo piano, io ero al sesto, chissà quanti avrebbero fermato la cabina ai piani intermedi. Invece quella sera l’ascensore mi stupì, si presentò in un lampo, ed era incredibilmente vuoto.

Quando il trillo dell’ascensore annunciò la discesa, un braccio teso s’infilò fra le porte in chiusura e le costrinse a ripensarci. Era lui: il flagello.

Una volta dentro, sbuffò. «Oh, perfetto, Matilda, mi hai risparmiato un’attesa estenuante! Stranissimo trovarlo vuoto, non trovi?» E abbracciò la sua borsa di cuoio.

Annuii. «Già. Stasera molti avranno staccato prima, il traffico sarà allucinante. Poi c’è chi compra i regali all’ultimo momento…» Blah, odiavo intrecciare con lui anche solo una parvenza di conversazione, odiavo far finta che mi piacesse parlarci insieme. Non sopportavo la sua voce, forse perché quando s’arrabbiava mi ricordava tanto mio marito. Mi detestavo quando mi comportavo come dovevo e non come avrei voluto. All’improvviso pensai che quello poteva essere il momento giusto per dirgli senza peli sulla lingua ciò che pensavo di lui, del suo modo di fare sgarbato, inappropriato, detestabile; senz’altro sarei tornata a casa con dieci chili di meno, e avrei sorriso pensando alla soddisfazione che dopo tre anni mi ero tolta. Avremmo discusso di certo, la gente si irrita maledettamente quando gli sputi in faccia la verità, non è in grado di vederla, di reggerla. Ma poi pensai al flagello, a come si sarebbe sentito la sera della vigilia di Natale. E lo risparmiai.

Lui continuò imperterrito. «Matilda, se posso permettermi, con chi passerà la serata, parenti forse?»

Che cacchio gli importava dei miei programmi? Gli avevo mai chiesto niente della sua vita?!

«Ehm, no, niente parenti…» risposi contando le parole. «Guarderò la tv e coccolerò il gatto.»

«Un buon programma… Io, ehm, anch’io starò a casa, da solo. Mia moglie solo l’anno scorso preparava la cena della vigilia, sembra ieri.» Le labbra sparirono, ingoiate dalla barba.

Forse per la prima volta, quella volta, incrociai il suo sguardo. Attraverso le lenti mi sembrò di scorgere un luccichio. Ma era commozione quella? Allora nel suo petto batteva qualcosa. Allora era umano!

Lui abbassò la testa e la rialzò subito dopo. Mi fissò ancora. E poi ancora.

Sì, aveva gli occhi lucidi e una lacrima era sfuggita al suo controllo. Era autentica commozione.

Arturo continuò: «Ehm, so di suo marito, mm, dev’essere stata dura… Noi due abbiamo dovuto digerire lo stesso dolore e nessuno può capire cosa sia stato, se non chi l’ha provato.»

“Dolore?” pensai, “chiamala rinascita, piuttosto.” Un mezzo sorriso, che voleva essere formalmente solidale, affiorò sulle mie labbra. Non avevo mai parlato così a lungo con quell’uomo, per quanto mi riguardava gli avevo dato già troppo. Da adesso in poi avrei risposto con dei monosillabi.

Il visore dell’ascensore segnò lo zero, si spense, avrebbe dovuto riaccendersi subito dopo indicando il piano ’interrato. Fu allora che uno scossone, seguito da uno stridio pauroso, fermò di colpo la corsa della cabina.

I miei occhi si spalancarono. «Mio Dio, cosa è stato?»

Un pensiero atroce mi fermò il respiro. Quella era iella, iella allo stato puro. Se avessi passato anche solo un quarto d’ora della vigilia di Natale insieme col flagello, avrei pregiudicato il resto della serata. Cominciai a sudare, erano sudori freddi. Non ero claustrofobica, ma quello era il momento adatto per cominciare a esserlo, altrimenti i soccorsi sarebbero arrivati il giorno dopo.

Cominciai a premere insistentemente il pulsante dell’interrato.

L’ascensore sussultò, non ripartì.

Il quadrato luminoso che avevamo sulla testa fece l’occhiolino – cominciava a piacergli la nostra situazione infame – quindi si spense del tutto. Al buio e col flagello, che avevo fatto di male?! Uccidere un marito violento non poteva rientrare nel computo dei peccati gravi, avevo reso giustizia a me stessa. E se, in quell’ascensore, trovandomi alle strette, fossi stata costretta a uccidere per la seconda volta?

Ingoiai un groppo di saliva.

Il flagello premette l’allarme due volte, poi la terza, ma il portiere doveva essere andato via. Lo premette ancora, e ancora, infine partì una voce registrata che c’invitava a conservare la calma e c’informava che l’allarme, in automatico, era stato inoltrato a un centro di emergenza.

Dopo tre ore eravamo ancora chiusi lì dentro. Faceva freddo. Le luci dei cellulari, inesorabilmente senza campo, illuminavano la cabina a intervalli brevi – non potevamo permetterci di sprecare batterie e decidemmo di accenderli a turno, per lo stretto indispensabile.

Guardai l’ora sul cellulare, mancava un quarto alla mezzanotte.

«Mi piace il tuo viso», esordì Arturo a un certo punto. «Non so, sarà la luce del tuo display ma… hai gli occhi sognanti.» Un’espressione strana aleggiava sulla faccia. Un’espressione languida?!

Ma quando gli avevo permesso di farmi dei complimenti? La nostra conversazione era stata formale fino a quel momento, cos’era cambiato in tre ore d’inscatolamento e buio quasi assoluto?

Mio marito non faceva complimenti, almeno non a me. Accidenti, non credevo fossero così gratificanti.

Arturo miMi strappò un sorriso, piccolo, e un po’ forse arrossii, ma la penombra nascose l’imbarazzo.

A un tratto, sorprendentemente, sfacciatamente, Arturo mi porse l’auricolare del suo telefono e, con un mezzo sorriso, sussurrò: «È scoccata la mezzanotte, buon Natale, Matilda… Non mi dica che ha promesso a qualcun altro questo ballo?!» Ammiccò e allungò il palmo spalancato verso di me.

Non ricordavo quanto fosse piacevole sentirsi corteggiate, poiché in quel momento Arturo mi stava chiaramente corteggiando. La sua galanteria, imprevedibile, inimmaginabile, cancellò tutto il brutto che pensavo di lui e mi regalò il secondo sorriso della serata.

La mia mano, dopo più di qualche indecisione, scivolò nella sua.

Il mio corpo, lentamente e con un certo imbarazzo, si accostò al suo. Appoggiai, con tatto, il capo sul suo petto.

Il suo abbraccio, dolce e gentile, mi accolse e mi mostrò una tenerezza che forse non avevo mai conosciuto.

Cominciammo a ballare, nell’angusta cabina di un freddo e tetro ascensore. Arturo mi cullava fra le braccia e io seguivo i suoi movimenti. Le note erano quelle della mia canzone preferita e forse anche la sua: At last, di Etta Jamesfinalmente era Natale.


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