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Prologo de "Il Ciondolo d'Ambra: Crisalidi"

Un rumore cupo, sordo, ruppe il silenzio.

Qualcosa di rigido, e freddo, colpì con forza la mia schiena.

Il corpo vibrò come un gong percosso da un battente. Le ossa scricchiolarono.

Un dolore feroce, insopportabile, come un dardo saettò dalla colonna verso le costole e la nuca.

Persi i sensi.

Quando in un certo qual modo rinvenni, non riuscivo a respirare. Era faticoso, dolorosissimo. Non sentivo più le gambe. A dire il vero non sentivo neppure braccia e mani; il mio corpo era intorpidito, rigido, razziato dal dolore. Mi sembrava di essere avvolta nel filo spinato: avvertivo fitte intense e acute come se una miriade di spilli si conficcasse nella carne e affondasse nei muscoli fino a scalfire le ossa.

I nervi erano tesi fino allo spasmo. I denti erano talmente serrati che quasi mi entravano nel cranio.

Avevo perso la nozione del tempo: non sapevo se fossero passate ore, minuti o addirittura giorni dal mio ultimo ricordo; le poche immagini che avevo nella testa erano confuse, frammentarie.

Ero avvolta dall’oscurità assieme a un silenzio totale.

Ebbi paura. Ma non tremavo. Il fisico ormai non reagiva più.

"Sto morendo", pensai.

Mi arresi.

Attesi con pazienza che la mia anima si separasse dal corpo e lo osservasse dall'alto, ormai inerme, privo del cosiddetto soffio vitale. Ero convinta che di lì a poco avrei vissuto l'esperienza della quasi morte, quella che spesso descrive chi si risveglia dal coma. Mi aspettavo di oltrepassare il fatidico tunnel e di scorgere dall'altra parte la luce, quella luce avvolgente e rassicurante che dicono ti tolga la voglia di tornare indietro. Invece intorno a me c'era solo buio, freddo e silenzioso buio che raggelava il sangue. Lo sentivo insinuarsi fin dentro le ossa. E stava per vincere.

All'improvviso delle mani cominciarono a muoversi sul mio viso. Non avevo ancora lasciato il mio corpo dal momento che sentivo la pressione delicata delle dita; forse restava ancora un sottile, tenace, filo di vita che mi legava al mondo. Percepii il peso e il calore di qualcuno che appoggiava il capo sul mio petto – probabilmente per ascoltare un battito che diventava sempre più flebile. Fu allora che cercai di fare un respiro che potesse definirsi tale, dovevo provare a me stessa e a quel qualcuno che ero ancora viva.

Accennai un respiro.

Le arterie alla base del collo pulsarono al ritmo lievissimo dei battiti che, se pur lenti e irregolari, c'erano ancora.

Poi mi arrivò una voce lontana, forse più di una, che urlava parole spezzettate e incomprensibili; percepivo suoni ovattati che si schiarivano solo a intermittenza.

Avrei voluto alzarmi, aprire gli occhi, lo avrei voluto con tutta me stessa, ma non riuscii a emettere neppure un gemito per dimostrare che in qualche stranissimo modo c’ero ancora. I muscoli non mi obbedivano più: il mio corpo era diventato la mia prigione.

All'improvviso la schiena si staccò dalla superficie scabra e gelida che le premeva contro. Subito provai un senso di sollievo.

I muscoli cominciarono a rilassarsi.

C'erano delle braccia intorno a me, tante, che mi sostenevano con decisione.

Dell'aria fresca cominciò a farsi largo nei polmoni. Era piacevole da respirare, leggera – forse non mi trovavo più nel luogo opprimente dov’ero stata fino a poco prima.

Le braccia che mi sostenevano mi adagiarono su qualcosa di soffice, fresco, e lo fecero con la stessa cura che può adoperare una mamma col proprio bambino. Qualcuno mi sollevò le gambe, che adesso finalmente sentivo, e le adagiò su qualcosa di morbido – nella memoria conservo soltanto brevi passaggi di quei momenti, la coscienza riaffiorava a intervalli irregolari, un po' come le lucine di un albero di Natale. Ricordo invece molto chiaramente il senso di sollievo che assaporai quando sparì l'odore disgustoso della muffa e il profumo della resina cominciò ad avere un effetto benefico sui miei polmoni.

Quando il dolore alle costole diventò sopportabile e il diaframma prese a muoversi liberamente, cominciai a incamerare ossigeno. Ne ingoiai più che potei. Ero avida, ingorda, d'aria.

Il sangue si purificò e la mente tornò lucida.

Finalmente mi resi conto che a soccorrermi erano stati i miei amici, le loro braccia mi avevano sostenuto. Anche le voci gradualmente divennero nitide, adesso riuscivo a distinguerle l'una dall'altra malgrado non riuscissi ancora a parlare, né a muovermi.

Qualcuno provò a darmi dell'acqua e intanto qualcun altro mi tamponava il viso con un panno bagnato.

«Eleonora, mio Dio, rispondi!» ripeteva Sarah con la voce rotta dal pianto. Era proprio la sua voce, adesso la riconoscevo, la lanciava ripetutamente verso di me proprio come si lancia un salvagente a un naufrago. Eppure, ogni volta che provavo ad aggrapparmi alla salvezza, che riuscivo a sfiorarla con la punta delle dita, inesorabilmente scivolavo nella pozza dell’impotenza: non riuscivo ad articolare una sola sillaba per dirle che la sentivo, che capivo ciò che diceva. Percepivo la paura, le ansie, ascoltavo le voci concitate degli amici che si preoccupavano per me e avrei voluto fare qualcosa, dire qualcosa che li rassicurasse. Ma il mio corpo era diventato un guscio inerte, come il bozzolo coriaceo di una crisalide.

«Alex, cos'è successo? Parla! Cosa le hai fatto?» ringhiavano.

Li sentivo discutere assurdamente fra loro. Si accusavano l’un l’altro e soprattutto incolpavano Alex per quanto era accaduto.

E io stavo lì ad ascoltarli.

A un certo punto tornarono i ricordi, uno a uno, pigramente, come sottili nuvole di fumo emersero dal buio che mi teneva prigioniera e diedero corpo al mio passato. [...]

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